Condividiamo l’articolo di ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione “Contro la Costituzione, le ONG e i diritti umani: l’insostenibile fragilità del decreto legge n.1/2023” del 5 gennaio 2023, per una prima lettura del decreto-legge n. 1/2023 con cui il governo intende “regolamentare” l’attività di soccorso delle navi umanitarie.
Il Governo insediatosi il 22 ottobre 2022 si è subito caratterizzato per i tentativi di bloccare quella che definisce “immigrazione illegale”, soprattutto proveniente via mare dal Nord Africa, emanando il 24 ottobre 2022 una Direttiva del Ministro dell’interno (prot. 0070326), con cui ha rifiutato l’indicazione di un porto di approdo a due navi (Ocean Viking e Humanity 1) che avevano prestato soccorso a persone straniere naufraghe nel Mediterraneo, chiedendo agli Stati di bandiera (Norvegia e Germania) di assumersi la responsabilità di indicare loro il porto sicuro, nonché emanando il 4 novembre 2022 un decreto con cui ha vietato alle navi Geo Barents e Humanity 1, di sostare in acque italiane oltre il tempo necessario per far sbarcare le sole persone in precarie condizioni di salute.
Tentativi ben presto falliti, tant’è che dopo l’imbarazzante autorizzazione selettiva allo sbarco per le sole persone qualificate “vulnerabili”, alla fine tutte le navi umanitarie sono state fatte entrare in porti italiani e tutte le persone fatte sbarcare, per effetto degli obblighi internazionali che impongono di prestare soccorso a chiunque si trovi in condizioni di pericolo in mare e di condurre le persone soccorse in un luogo sicuro di sbarco.
Perseguendo, tuttavia, nel medesimo obiettivo, il Governo ha ora approvato il decreto-legge n. 1/2023 con cui intende regolamentare l’attività di soccorso delle navi umanitarie, definito dai mass-media “codice di condotta delle ong”, le cui norme però devono essere interpretate in conformità alle norme costituzionali (tra le quali l’art. 10 Cost. ), alle norme europee e alla normativa internazionale, peraltro espressamente richiamate sia nel decreto-legge n. 130/2020, sia nel decreto-legge n. 1/2023 di riforma del primo.
Quali sarebbero, in concreto, le nuove regole?
Il nuovo decreto-legge appare in sostanziale continuità con una disposizione contenuta nel decreto-legge n. 130/2020 (cd. decreto Lamorgese) che consente all’Esecutivo di “limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale” per motivi di ordine e sicurezza pubblica in conformità alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (cd. Convenzione di Montego Bay).
Divieto di transito e sosta che il nuovo D.L. n. 1/2023 esclude, tuttavia, nel caso di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo dello Stato nella cui area SAR di competenza ha avuto luogo l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano tutte le seguenti condizioni:
a) la nave che effettua sistematicamente attività di ricerca e soccorso abbia le autorizzazioni rilasciate dalle autorità dello Stato di bandiera e possegga i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione;
b) siano avviate tempestivamente informative alle persone soccorse della possibilità di chiedere protezione internazionale;
c) sia chiesta nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco;
d) il porto di sbarco sia raggiunto senza ritardo;
e) siano fornite alle autorità marittime o di polizia le informazioni per ricostruire dettagliatamente l’operazione di soccorso;
f) le modalità di ricerca e soccorso in mare non abbiano concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco.
Occorre ricordare che tali condizioni per gran parte erano previste prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto-legge e sempre attuate dalle navi umanitarie, le quali contattano già immediatamente i Centri marittimi competenti per l’area marittima ove accade l’evento per avere indicazione di un porto sicuro ove far sbarcare le persone soccorse (lett. c), salvo che tale indicazione provenga dalla Libia, essendo chiaramente un luogo non sicuro (come riconosciuto da ONU, UNHCR e OIM, tra gli altri). Il problema nella prassi è esattamente l’inverso, cioè sono proprio detti Centri che non rispondono tempestivamente alle richieste di avere un porto sicuro o si rimpallano l’un l’altro le competenze, lasciando le navi per molti giorni in mare in attesa del porto con le persone soccorse a bordo.
Parimenti, le navi umanitarie forniscono sempre informative precise delle operazioni di soccorso (lett. e).
Il decreto-legge non prevede nulla di nuovo, dunque.
Quanto alle autorizzazioni alla navigazione rilasciate dagli Stati di bandiera (lett.a), tutte le navi umanitarie rispettano tutti i requisiti e possiedono le certificazioni statutarie previste per la classe assegnata dallo Stato di bandiera. La recentissima sentenza della Corte di giustizia 1.8.2022 cause riunite C-14/21 e C-15/21 ha peraltro chiarito che lo Stato di approdo (era proprio l’Italia lo Stato parte in quelle cause) non può pretendere certificazioni diverse da quelle rilasciate dallo Stato di bandiera, né può esigere che le navi rispettino prescrizioni tecniche ulteriori e diverse da quelle previste dalle Convenzioni internazionali pertinenti. La decisione della Corte di giustizia esclude, quindi, la legittimità di eventuale fermo amministrativo delle navi di soccorso per ritenuta violazione di detta condizione, come astrattamente previsto dall’art. 2-quater e ss. D.L. n. 130/2022, come modificato dal D.L. n. 1/2023.
Non è immaginabile che il governo italiano possa violare la sentenza della Corte di Giustizia.
Le condizioni b), d) ed f) rappresentano, invece, i veri obiettivi del decreto-legge, ovverosia impedire l’approdo in Italia delle persone salvate dai naufragi e conseguentemente impedire che l’Italia divenga Stato competente all’esame delle domande di protezione internazionale nel momento in cui siano presentate dalle persone soccorse, nel contempo impedendo che le navi umanitarie soccorrano persone in differenti eventi di pericolo.
Pretendere, infatti, che il porto di sbarco assegnato sia raggiunto “senza ritardo” (lett. d) e che le modalità di soccorso non impediscano di raggiungerlo “tempestivamente”(lett. f) sottende la volontà di costringere le navi a non soccorrere persone a rischio di naufragio diverse da quelle già soccorse e delle quali abbiano contezza nell’area di mare ove si trovano ad operare, così come di impedire che le persone soccorse siano trasbordate da una nave umanitaria all’altra (per consentire a una di esse di tornare a cercare persone in pericolo).
Pretesa che non potrà mai avverarsi perché qualora il comandante della nave che già ha prestato un primo soccorso venga a conoscenza di una ulteriore situazione di pericolo dovrà sempre dirigersi verso la zona e prestare assistenza in ossequio all’obbligo inderogabile di soccorso previsto dal diritto internazionale consuetudinario e pattizio (art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, Cap. V Regola 33 della Convenzione SOLAS) e dal diritto interno (v. art. 1113, art. 1158 Codice della Navigazione).
L’obbligo di soccorso imposto dal diritto internazionale è norma di rango superiore (art. 10 e 117 Cost.) e non può essere derogata da una disciplina interna volta a limitare i soccorsi stessi
Altrettanto inapplicabile è la previsione che implicitamente vorrebbe collegare l’ordine di raggiungere tempestivamente il porto sicuro assegnato a un divieto generalizzato di trasbordo delle persone da una nave all’altra: da un lato, infatti, la valutazione delle condizioni di sicurezza della nave che eventualmente impongano il trasbordo sono da valutarsi caso per caso e restano nella competenza del/della comandante della nave; dall’altro se il motivo del trasbordo fosse di recarsi subito a soccorrere altre persone in condizione di pericolo, varrebbe il medesimo precetto inderogabile di cui all’art. 98 della Convenzione di Montego Bay.
La normativa internazionale è di inequivoca lettura: lo Stato deve (e non già solo può) esigere dal/dalla comandante di una nave che agisca per prestare soccorso.
Fatte salve le valutazioni tecniche sui rischi per la sicurezza della nave nello svolgere le operazioni di soccorso non ci può essere alcun margine di scelta da parte del/della comandante di qualsiasi nave a effettuare anche diversi soccorsi qualora nel corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo e altre navi che portino le persone soccorse in un porto sicuro non siano in grado di intervenire, né le autorità italiane possono ordinare al comandante della nave in pericolo di non effettuare tale soccorso, salvo incorrere nella commissione di gravi reati. Il governo italiano non potrebbe nemmeno impedire il soccorso plurimo se, ad esempio, a conoscenza dell’arrivo di una nave libica, in quanto nessuno può essere sbarcato o consegnato ad autorità di un Paese ove rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti (art. 4 paragrafo 1, Regolamento (UE) n. 656/2014 sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne), come ormai è acclarato avvenga sistematicamente in Libia.
Dunque, la selettività del soccorso sottesa al decreto-legge non potrà mai essere interpretata come ostativa al soccorso di tutte le persone che si trovano in mare in stato di pericolo.
Quanto, infine, alla previsione secondo cui debbano essere “avviate tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità” (lett. b), va evidenziato che una simile prescrizione non può essere data ai comandanti di una nave battente bandiera di un altro Stato poiché i relativi poteri e doveri sono indicati dalla legge nazionale di quello Stato (art. 8 Codice della navigazione R.D. 327/42) e pertanto lo Stato italiano non può imporre competenze non previste dall’ordinamento dello Stato di bandiera. Peraltro, va precisato che con riferimento alle navi battenti bandiera italiana il/la comandante esercita funzioni di pubblico ufficiale solo con riguardo ad atti di stato civile (nascita, morte, matrimonio) e per la ricezione di testamenti sulla nave (art. 296 Codice navigazione). In termini analoghi dispone l’art. 94, par. 2 lett. b) Convenzione UNCLOS.
Inoltre, è noto che la materia dell’accesso alla protezione internazionale nell’Unione europea ha una sua specifica disciplina di settore. La Direttiva 2013/32 (art. 4) prevede che ogni Stato nomini specifiche autorità competenti all’esame delle domande di protezione internazionale, alla trattazione dei casi soggetti al Regolamento Dublino o per rifiutare l’ingresso nell’ambito delle procedure d’esame in frontiera. Con il d.lgs 25/2008 (modificato anche in attuazione di detta Direttiva) l’Italia ha nominato quale autorità competente all’esame, anche per le domande in frontiera, le Commissioni territoriali (distribuite su base regionale), l’Unità Dublino (presso il Ministero dell’interno) per l’accertamento della competenza dello Stato secondo i criteri del Regolamento 604/2013 (art. 3) e la polizia di frontiera o la questura territorialmente competente per la ricezione delle domande (art. 26).
In tutte le ipotesi, trattasi di competenze assegnate inevitabilmente quando la persona richiedente asilo si trova sul territorio italiano e certamente non su quello di altro Stato, come nel caso di navi battenti bandiera straniera.
Peraltro, la specifica preparazione professionale delle varie autorità competenti in materia di protezione internazionale non appartiene certamente a chi comanda una nave, a cui dunque non può essere affidata la ricezione di domande di protezione internazionale che richiedono il rispetto di precise procedure amministrative. Già la Corte europea dei diritti umani nella sentenza definitiva della Grande Camera 23.02.2012 sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia ha affermato la necessità dell’esame della situazione individuale di ciascuna persona soccorsa, ritenendo che il personale a bordo delle navi non abbia la formazione necessaria per condurre colloqui individuali e non è assistito da interpreti e consulenti giuridici.
Se attraverso questa previsione il Governo italiano volesse sostenere, come ha dichiarato più volte, che la competenza all’esame della domanda di asilo dei naufraghi si radica sulla base della bandiera della nave di salvataggio, è evidente la sua contrarietà al diritto UE non potendo disciplinare con propria norma interna una materia di esclusiva competenza dell’Unione europea.
Non da ultimo, va ricordato che l’obbligo di soccorso delle persone in mare in condizioni di pericolo prescinde oggettivamente dalla qualificazione giuridica soggettiva di ognuna di loro (Par. 2.1.10 Allegato Convenzione SAR ratificata e resa esecutiva con legge 147/1989) e solo quando sono poste in completa sicurezza potranno essere qualificate giuridicamente, ciò che avviene una volta che siano sbarcate, in quanto le operazioni di soccorso si completano solo con l’approdo in un porto sicuro.
Vano è, pertanto, il tentativo sotteso al decreto-legge n. 1/2023 di radicare la competenza all’esame di domande di protezione internazionale allo Stato di pertinenza della nave di soccorso.
Un’ultima questione, che rimane sotto traccia nel decreto legge, riguarda se le autorità italiane possano indicare lo sbarco in un porto sicuro italiano che si trovi in zona molto lontana dall’area in cui è avvenuto il soccorso.
La Convenzione SOLAS (Cap. V, Regola 33, par. 1-1) impone agli Stati di cooperare affinché i comandanti delle navi che hanno prestato soccorso imbarcando persone in pericolo in mare siano liberati dal loro impegno con la minima deviazione possibile dalla rotta originariamente prevista. La Risoluzione MSC 167(78) del 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea), in applicazione degli obblighi previsti dalla Convenzione SOLAS e dalla Convenzione SAR, stabilisce che porto sicuro è quello del luogo in cui sono completate le operazioni di salvataggio e in cui le persone salvate possono accedere ai loro bisogni fondamentali (par. 6.12), precisando che la nave non può di per sé essere considerata luogo sicuro anche se in grado di garantire sicurezza immediata alle persone (par. 6.13). La stessa Risoluzione precisa inoltre che “Una nave non dovrebbe essere soggetta a ritardi ingiustificati, oneri finanziari o altre difficoltà dopo aver prestato assistenza alle persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero sollevare la nave non appena possibile” (par. 6.3).
La lettura sistematica della normativa internazionale consente, dunque, di ritenere che il porto sicuro debba essere quello che, innanzitutto, non aggravi la condizione psico-fisica delle persone soccorse (che provengono già da contesti di assoggettamento a violenze di vario genere) protraendo nel tempo la loro completa messa in sicurezza, né che impedisca loro di presentare tempestivamente, se del caso, domanda di protezione internazionale alle competenti autorità nazionali e, non da ultimo, che non impedisca alle navi di soccorso di svolgere la loro legittima attività umanitaria senza ulteriori aggravi.
Questo significa che l’indicazione di porti sicuri italiani che si trovino in zone lontane giorni di navigazione rispetto al luogo ove è avvenuto il soccorso è da ritenere in contrasto con l’obbligo inderogabile di prestare soccorso a persone in mare in condizioni di pericolo.
Conclusioni
Il decreto legge n. 1/2023, preceduto da una narrazione politica finalizzata al contrasto dell’immigrazione definita illegale, contiene disposizioni che non potranno far cessare né i gravi motivi che inducono le persone a fuggire in mare dallo Stato di origine o di transito, né le operazioni di soccorso umanitario imposto dal diritto internazionale. Dunque, tanto rumore per nulla, trattandosi di norme in parte già applicate, mentre altre sono inapplicabili per contrasto con il diritto internazionale ed europeo.
Un intervento legislativo che, non si può non evidenziare, ancora una volta nasconde la mancanza di consapevolezza della fallimentare strategia italiana ed europea che persevera a negare la possibilità di ingressi regolari che consentano alle persone straniere di entrare in modo veloce e sicuro sul territorio italiano o di altro Stato dell’Unione europea con visti di ingresso per lavoro o per ricerca lavoro o per asilo o per altra motivazione prevista dalla complessa disciplina dell’immigrazione.
Un decreto-legge che non si fa carico neppure di promuovere con l’Unione europea un’ampia operazione di evacuazione urgente dalla Libia delle migliaia di persone straniere imprigionate in luoghi di detenzione in condizioni disumane e degradanti, ma nemmeno di cessare la collaborazione che dal 2007 i Governi italiani portano avanti di fatto con le varie milizie armate libiche coinvolte anche in operazioni di traffico di persone.